giovedì 6 novembre 2014

La recensione di Enzo Riccò





Grand Budapest Hotel     di Wes Anderson

Primo colloquio di lavoro: il responso di chi pone le domande è chiaro. Esperienza: zero. Istruzione: zero. Famiglia: zero. Viene così chiamato Zero il  personaggio principale del film “Grand Budapest Hotel” di Wes Anderson.

La pellicola presenta l’esperienza di un giovane fattorino che si pone sotto l’ala protettiva del carismatico concierge dell’albergo, diventandone prima fedele e affidabile discepolo, poi compagno di carambolesche avventure che ruotano attorno all’assassinio di una nobile anziana e al furto di un quadro di grande valore. E’ la storia di un discepolato ossequioso che si trasforma in amicizia e fratellanza.

La narrazione è ironica, surreale,  quasi fiabesca. I colori sono a tinte calde e intense e le ambientazioni, di gusto scenico teatrale,  fanno allusione ai fumetti o ai pannelli variopinti dei luna park. I personaggi sono caratterizzati in modo chiaro, proprio come in una favola: la madre ricca e infelice, il figlio avido, le sorelle stupide, il burocrate puntiglioso, il sicario malvagio, e così via. C’è un riferimento canzonatorio, abbastanza evidente, anche all’ideologia nazista.

E’ proprio nell’estrosità del dato tecnico di ripresa che possiamo trovare il primo riferimento di lettura contenutistica del film.

Le scene sono fortemente caratterizzate da una simmetria quasi ossessiva. Tutto  è centrato e bilanciato secondo una dualità continuamente ripetuta. L’ascensore, il treno, la funicolare, la funivia, i secondini e i detenuti nel carcere: sempre due o più  elementi, oggetti o persone, che si fronteggiano. Questi porsi uno di fianco all’altro in equilibrio ci rimanda ad una situazione di equità che inizialmente non esiste. C’è una asimmetria primaria data da un maestro e un discepolo, tra un “arrivato” e un “buono a nulla”. Questa disparità diventerà simmetria dualistica, portando pari dignità a due persone che si riconosceranno infine come fratelli. E’ la bella storia di un riscatto sociale di chi inizialmente è solo armato di speranza.

Il secondo elemento di lettura è riscontrabile, a mio parere, nell’affabilità, un po’ narcisistica, del concierge Gustave. E’ un modo di porsi, non formale, che racchiude una saggezza relazionale, dal sapore antico, ma ci parla del presente.

Il  primo responsabile dell’albergo, si pone nei confronti dei subalterni in modo severo ed esigente, ma mai umiliante. Si esprime, con una certa leziosità verbale, senza però  ledere il valore delle persone con giudizi corrosivi.  Tratta il giovane Zero, ultimo degli arrivati, con ferma direzione istruttiva; sembrerebbe anaffettivo, ma arriverà a dare la vita per difendere il ragazzo.

Questo personaggio fa emergere una riflessione sulle modalità di confronto e scontro dialogico tra le persone. Gustave ha uno stile  fatto di gesti e parole pregnanti di rispetto e considerazione per l’alterità.

In un mondo che ha fatto della chiassosa maleducazione l’attrattiva fondamentale dei media, la forbita delicatezza verbale di Gustave, ci fa riflettere. Basti pensare alle litigiose arene televisive, dove si passa con superficialità da questioni esistenziali alla vacuità del gossip, o  alle inebetenti convivenze dei reality, dove si auspicano e si facilitano volgari  e beceri alterchi. Per non ricordare come si sviluppano, in modo litigioso, i programmi televisivi di confronto politico. Gli ascolti si alzano con la rabbia manifestata,  l’intolleranza magari accompagnata da insulti.

Questo film ci propone una lettura della forza della gentilezza che, al di là dell’essere elemento anacronistico, è spinta educativa per la costruzione di una convivenza più pacifica.

Un proverbio arabo afferma che ogni parola, prima di essere pronunciata, dovrebbe passare, come in un filtro, attraverso  tre porte con una domanda di sbarramento per poter proseguire. Sulla prima soglia, dovrebbe esserci scritto: “La parola è vera?”. Sulla seconda porta dovrebbe campeggiare l’istanza: “E’ necessaria?”. Sulla terza si dovrebbe scolpire, come nel marmo, l’ultima domanda: “E’ gentile?”.

Solo se veritiera, necessaria, e  infine anche gentile, la parola potrà uscire dalla bocca per essere costruttiva.

Enzo Riccò

 
Il capitale umano
   di  Paolo Virzì

 

Il film di Paolo Virzì, Il capitale umano, già vincitore del David di Donatello, è stato scelto per rappresentare l’Italia nella prossima corsa all’Oscar come migliore opera straniera.

La pellicola ha una costruzione narrativa molto interessante: la stessa vicenda viene presentata, in forma di capitoli, attraverso l’esperienza diversa dei personaggi coinvolti. Quattro angolature della macchina da presa, che ci narra come un drammatico incidente stradale, dove perde la vita un ignoto ciclista, sconquassi la vita due famiglie benestanti della Brianza.

Il regista presenta in modo aspro il cinismo e la cupidigia di una comunità ambiziosa e  senza scrupoli, accecata dalla sete di potere dato dal denaro e dal successo.

Virzì, parlando del film, dice: “Soprattutto si narra come il denaro, l’ansia di moltiplicarlo, l’angoscia di perderlo, determini la vita affettiva, il destino, il valore delle persone”.

Emerge qualche sorriso in sala quando la buffonaggine sguaiata del personaggio interpretato ottimamente dall’attore Bentivoglio,  mostra grottesche, quanto umilianti,  pose da “bauscia”milanese per essere accolto dall’alta società. Ma ci sarebbe da piangere al pensare che la perfidia di un amorale mondo finanziario, fatto di pacche sulle spalle, ostentato e becero ottimismo, esiste davvero. Persone che si arricchiscono attraverso speculazioni senza regole puntando, come si dice nel film, sulla rovina di un paese.

Come ha voluto mostrare il regista, la brama del potere e il dio “mammona” non accettano compromessi. Vengono calpestati, senza alcun rimorso, legami e intimità famigliari, sogni e desideri di realizzazione, doverose attenzioni educative, la stessa verità che dovrebbe fare luce per la giustizia. 

Ricchi o disgraziati sono mossi dalle stessa corrosiva bramosia. 

C’è una folla che banchetta in lussuosi giardini sulle note di Vivaldi, elargendo in modo teatrale larghi sorrisi e complimenti ipocriti e ci sono i miseri che vivono in sgualciti  condomini sbarcando il lunario tra attività illegali e miraggi di facili ricchezze esotiche.

Il padre Dino vende senza perplessità i segreti della figlia, non per senso di giustizia, ma per avido riscatto vendicativo; lo zio di Luca anziché proteggere il fragile nipote, rimasto orfano, ne sfrutta le limitate risorse e lo sacrifica a pagare le colpe che sono sue; il temuto e falsamente compassato uomo di finanza usa le persone, e la stessa moglie, senza remore, facendo del successo economico il suo unico orizzonte di vita.

Come non rimanere turbati da questo impietoso profilo di società corrotta e corrosa dalla cupidigia. Anche perché tutti i personaggi sono infelici, sebbene seguano queste illusioni come canti di sirene che promettono facile e sicura felicità.

Sembra non esserci spazio alcuno per la costruzione di un mondo migliore. Eppure Virzì non ci lascia con l’amaro in bocca di una disfatta totale.

Due scene ci riportano ad un barlume di speranza.

Un abbraccio, segno di vera vicinanza affettiva, tra Roberta, compagna dell’arrivista Dino e la figlia di lui, la sanguigna Serena.

Contro l’arroganza del dio denaro, si oppone un legame di vera compassione, che non si può vendere, né acquistare. E’ gratuito, come l’affetto che si dona. Ma la cosa più interessante da notare è che tra le braccia di queste due donne che  si stringono, pulsa una nuova vita, segno di un futuro diverso. Roberta porta in grembo due gemelle. Un abbraccio a quattro, tutto al femminile.

Possiamo dire che per Virzì la speranza è donna. Anche perché nel film – e lo dico con velo di tristezza essendo uomo – i maschi rappresentano l’elemento perverso e debole della comunità rappresentata. Le donne de “Il capitale umano” mostrano una certa fragilità, ma fermezza e determinazione, fino al sacrificio, per proteggere e difendere ciò che vale.

Ancora una volta la creatività del linguaggio cinematografico è specchio di una fisionomia sociale, non solo nel denunciare il pericolo dei miti illusori della falsa realizzazione, ma per evidenziare una ormai evidente debolezza che oggi vive la figura maschile, forse riflesso di una incertezza della stessa funzione paterna.

E infine la sequenza finale, senza parole.

Due giovani si guardano teneramente con un sorriso che ha finalmente, dopo tanta ipocrisia, tutto il sapore della verità.

 

Enzo Riccò

 


Se chiudo gli occhi non sono più qui   di   Vittorio Moroni

 

Kiko tiene nel pugno una piccola pietra scura, deforme e rugosa, resto di una meteorite: è per lui più di un amuleto. E’ come un viatico esistenziale che gli ha lasciato il padre, morto tragicamente sulla strada, travolto da un colpevole senza nome.

Il ragazzo sogna universi paralleli e guarda il cielo notturno nel desiderio di colmare un buco di sofferenza che non si chiude mai, anche quando, con una pinza, si contorce le carni del braccio fino al limite della sopportazione.

Il film di Vittorio Moroni, “Se chiudo gli occhi non sono più qui”, presenta la figura di un giovane inquieto, figlio di una filippina e di un italiano, che deve gestire una problematica situazione emotiva.

La madre, sommersa di debiti contratti dal marito,  convive con un altro uomo, aggressivo e irascibile, che fa del lavoro la sua unica ragione di vita. Kiko deve conciliare, senza riuscirci scuola e lavoro. Dopo la tragica vicenda dell’incidente è sempre tormentato da un senso di vuoto. Fugge da un mondo che non capisce. Si rifugia in un arrugginito autobus che ha trasformato in tana, circondato da chincaglierie, oggetti e foto ingiallite del padre morto che gli sorride.

Nel suo nascondiglio tutto è fermo, secondo una staticità asfissiante che reprime ogni  slancio di rinnovante cambiamento. La rabbia cova tra le lamiere di un mezzo che, per antitesi rispetto al suo uso, non trasporta più nessuno.  Anche l’iguana, l’unico amico silenzioso, si muove con una lentezza che ci riporta ai tempi delle antiche ere geologiche.

Il riferimento alle stelle è frequente in modo esplicito nel film: nomi di astri, distanza tra corpi celesti.  E il bus, divorato da sterpaglie, è come una stella fissa: una nostalgica inquietudine attorno alla quale si espande e ruota l’universo di una vita segnata da destini che sembrano inevitabili e senza speranza. I debiti lasciati in eredità dal padre, il duro lavoro nel cantiere che non gli lascia tempo allo studio, una scuola distratta e inerme di fronte ad un ragazzo che si addormenta  bocconi sul banco, un nuovo padre padrone che lo vuole iniziare alla fatica del mondo adulto tra rimproveri, botte ed obblighi di manovalanza.

Questo sistema planetario relazionale - emotivo, senza orizzonte,  viene però destabilizzato da una enigmatica figura: Ettore. L’anziano insegnante dice di essere stato amico del padre e vuole accendere nell’adolescente una nuova passione per la vita, attraverso il gusto di un sapere esistenziale. Gli fa assaporare la saggezza della  domanda, quella che motiva con dirompente forza la ricerca interiore.

Le domande sono così scritte, con pennarello indelebile, su sassi di fiume che sembrano formare il fondamento di un rinnovato percorso.

Ma quando tutto assume un indirizzo positivo, una nuova conoscenza fa esplodere, come un big bang,  ogni equilibrio. Il portatore del bene è fonte dell’antico male e chi sembrava amico diventa il peggiore dei nemici da odiare. L’origine della più radicale sofferenza.

Con il cuore rivolto alle stelle, il giovane arriva ad una triste conclusione: “Quando una grande stella muore diventa un buco nero: tutto ingoia e nulla torna più indietro”.

“Se chiudo gli occhi non sono più qui”, tra le dolorose, quanto possibili vicende che illustra, è un film portatore di grandi segni di speranza, differentemente da quanto possa apparire.

La speranza di un sapere che diventa medicina sanante quando entra a contatto con la vita. Un sapere che non è fatto di risposte nozionistiche, ma di interrogativi profondi e motivanti,  che ci spingono oltre l’immobilismo di un destino precostituito e demoralizzante.

Ma c’è di più.

Tra le pieghe della narrazione emergono altri due volti della speranza che hanno l’aroma della proposta cristiana più difficile e coraggiosa.

La prima è quella di un male distruttivo che si trasforma in bene rigenerante. Il vecchio Ettore mette tutto se stesso in gioco, accettando il rischio, il rifiuto e l’odio comprensibile di chi sta aiutando, mosso non da sensi di colpa, ma dal desiderio di trasformare il male in bene.

Il secondo passo di speranza lo compie proprio Kiko.

E’ il passo più difficile: quello del perdono. E’ narrato senza parole, con le immagini di una corsa che si ferma sulla soglia di una stanza di ospedale ormai vuota.

L’ultimo sasso che Ettore ha lasciato a Kiko in eredità è bianco, senza domande.

Il giovane lo deposita dolcemente sul greto di un ruscello di acqua limpida. Non lo lancia, né lo getta. Lo rimette al suo posto nel flusso della vita.

 

                                                                                                       Enzo Riccò

 

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