Grand Budapest Hotel di Wes Anderson
Primo colloquio di
lavoro: il responso di chi pone le domande è chiaro. Esperienza: zero.
Istruzione: zero. Famiglia: zero. Viene così chiamato Zero il personaggio principale del film “Grand Budapest Hotel” di Wes Anderson.
La pellicola presenta
l’esperienza di un giovane fattorino che si pone sotto l’ala protettiva del
carismatico concierge dell’albergo, diventandone prima fedele e affidabile
discepolo, poi compagno di carambolesche avventure che ruotano attorno
all’assassinio di una nobile anziana e al furto di un quadro di grande valore.
E’ la storia di un discepolato ossequioso che si trasforma in amicizia e
fratellanza.
La narrazione è ironica,
surreale, quasi fiabesca. I colori sono
a tinte calde e intense e le ambientazioni, di gusto scenico teatrale, fanno allusione ai fumetti o ai pannelli
variopinti dei luna park. I personaggi sono caratterizzati in modo chiaro,
proprio come in una favola: la madre ricca e infelice, il figlio avido, le
sorelle stupide, il burocrate puntiglioso, il sicario malvagio, e così via. C’è
un riferimento canzonatorio, abbastanza evidente, anche all’ideologia nazista.
E’ proprio
nell’estrosità del dato tecnico di ripresa che possiamo trovare il primo
riferimento di lettura contenutistica del film.
Le scene sono fortemente
caratterizzate da una simmetria quasi ossessiva. Tutto è centrato e bilanciato secondo una dualità
continuamente ripetuta. L’ascensore, il treno, la funicolare, la funivia, i
secondini e i detenuti nel carcere: sempre due o più elementi, oggetti o persone, che si
fronteggiano. Questi porsi uno di fianco all’altro in equilibrio ci rimanda ad
una situazione di equità che inizialmente non esiste. C’è una asimmetria
primaria data da un maestro e un discepolo, tra un “arrivato” e un “buono a
nulla”. Questa disparità diventerà simmetria dualistica, portando pari dignità
a due persone che si riconosceranno infine come fratelli. E’ la bella storia di
un riscatto sociale di chi inizialmente è solo armato di speranza.
Il secondo elemento di
lettura è riscontrabile, a mio parere, nell’affabilità, un po’ narcisistica,
del concierge Gustave. E’ un modo di porsi, non formale, che racchiude una
saggezza relazionale, dal sapore antico, ma ci parla del presente.
Il primo responsabile dell’albergo, si pone nei
confronti dei subalterni in modo severo ed esigente, ma mai umiliante. Si esprime,
con una certa leziosità verbale, senza però
ledere il valore delle persone con giudizi corrosivi. Tratta il giovane Zero, ultimo degli
arrivati, con ferma direzione istruttiva; sembrerebbe anaffettivo, ma arriverà
a dare la vita per difendere il ragazzo.
Questo personaggio fa
emergere una riflessione sulle modalità di confronto e scontro dialogico tra le
persone. Gustave ha uno stile fatto di
gesti e parole pregnanti di rispetto e considerazione per l’alterità.
In un mondo che ha fatto
della chiassosa maleducazione l’attrattiva fondamentale dei media, la forbita
delicatezza verbale di Gustave, ci fa riflettere. Basti pensare alle litigiose
arene televisive, dove si passa con superficialità da questioni esistenziali
alla vacuità del gossip, o alle
inebetenti convivenze dei reality, dove si auspicano e si facilitano
volgari e beceri alterchi. Per non
ricordare come si sviluppano, in modo litigioso, i programmi televisivi di
confronto politico. Gli ascolti si alzano con la rabbia manifestata, l’intolleranza magari accompagnata da insulti.
Questo film ci propone
una lettura della forza della gentilezza che, al di là dell’essere elemento anacronistico,
è spinta educativa per la costruzione di una convivenza più pacifica.
Un proverbio arabo afferma
che ogni parola, prima di essere pronunciata, dovrebbe passare, come in un
filtro, attraverso tre porte con una
domanda di sbarramento per poter proseguire. Sulla prima soglia, dovrebbe
esserci scritto: “La parola è vera?”. Sulla seconda porta dovrebbe campeggiare
l’istanza: “E’ necessaria?”. Sulla terza si dovrebbe scolpire, come nel marmo,
l’ultima domanda: “E’ gentile?”.
Solo se veritiera,
necessaria, e infine anche gentile, la
parola potrà uscire dalla bocca per essere costruttiva.
Enzo Riccò
Il
film di Paolo Virzì, Il capitale umano,
già vincitore del David di Donatello, è stato scelto per rappresentare l’Italia
nella prossima corsa all’Oscar come migliore opera straniera.
La
pellicola ha una costruzione narrativa molto interessante: la stessa vicenda
viene presentata, in forma di capitoli, attraverso l’esperienza diversa dei
personaggi coinvolti. Quattro angolature della macchina da presa, che ci narra
come un drammatico incidente stradale, dove perde la vita un ignoto ciclista,
sconquassi la vita due famiglie benestanti della Brianza.
Il
regista presenta in modo aspro il cinismo e la cupidigia di una comunità
ambiziosa e senza scrupoli, accecata
dalla sete di potere dato dal denaro e dal successo.
Virzì,
parlando del film, dice: “Soprattutto si
narra come il denaro, l’ansia di moltiplicarlo, l’angoscia di perderlo,
determini la vita affettiva, il destino, il valore delle persone”.
Emerge
qualche sorriso in sala quando la buffonaggine sguaiata del personaggio
interpretato ottimamente dall’attore Bentivoglio, mostra grottesche, quanto umilianti, pose da “bauscia”milanese per essere accolto
dall’alta società. Ma ci sarebbe da piangere al pensare che la perfidia di un
amorale mondo finanziario, fatto di pacche sulle spalle, ostentato e becero
ottimismo, esiste davvero. Persone che si arricchiscono attraverso speculazioni
senza regole puntando, come si dice nel film, sulla rovina di un paese.
Come
ha voluto mostrare il regista, la brama del potere e il dio “mammona” non
accettano compromessi. Vengono calpestati, senza alcun rimorso, legami e
intimità famigliari, sogni e desideri di realizzazione, doverose attenzioni
educative, la stessa verità che dovrebbe fare luce per la giustizia.
Ricchi
o disgraziati sono mossi dalle stessa corrosiva bramosia.
C’è
una folla che banchetta in lussuosi giardini sulle note di Vivaldi, elargendo
in modo teatrale larghi sorrisi e complimenti ipocriti e ci sono i miseri che
vivono in sgualciti condomini sbarcando
il lunario tra attività illegali e miraggi di facili ricchezze esotiche.
Il
padre Dino vende senza perplessità i segreti della figlia, non per senso di
giustizia, ma per avido riscatto vendicativo; lo zio di Luca anziché proteggere
il fragile nipote, rimasto orfano, ne sfrutta le limitate risorse e lo
sacrifica a pagare le colpe che sono sue; il temuto e falsamente compassato
uomo di finanza usa le persone, e la stessa moglie, senza remore, facendo del successo
economico il suo unico orizzonte di vita.
Come
non rimanere turbati da questo impietoso profilo di società corrotta e corrosa
dalla cupidigia. Anche perché tutti i personaggi sono infelici, sebbene seguano
queste illusioni come canti di sirene che promettono facile e sicura felicità.
Sembra
non esserci spazio alcuno per la costruzione di un mondo migliore. Eppure Virzì
non ci lascia con l’amaro in bocca di una disfatta totale.
Due
scene ci riportano ad un barlume di speranza.
Un
abbraccio, segno di vera vicinanza affettiva, tra Roberta, compagna
dell’arrivista Dino e la figlia di lui, la sanguigna Serena.
Contro
l’arroganza del dio denaro, si oppone un legame di vera compassione, che non si
può vendere, né acquistare. E’ gratuito, come l’affetto che si dona. Ma la cosa
più interessante da notare è che tra le braccia di queste due donne che si stringono, pulsa una nuova vita, segno di
un futuro diverso. Roberta porta in grembo due gemelle. Un abbraccio a quattro,
tutto al femminile.
Possiamo
dire che per Virzì la speranza è donna. Anche perché nel film – e lo dico con
velo di tristezza essendo uomo – i maschi rappresentano l’elemento perverso e
debole della comunità rappresentata. Le donne de “Il capitale umano” mostrano una certa fragilità, ma fermezza e
determinazione, fino al sacrificio, per proteggere e difendere ciò che vale.
Ancora
una volta la creatività del linguaggio cinematografico è specchio di una
fisionomia sociale, non solo nel denunciare il pericolo dei miti illusori della
falsa realizzazione, ma per evidenziare una ormai evidente debolezza che oggi vive
la figura maschile, forse riflesso di una incertezza della stessa funzione
paterna.
E
infine la sequenza finale, senza parole.
Due
giovani si guardano teneramente con un sorriso che ha finalmente, dopo tanta
ipocrisia, tutto il sapore della verità.
Enzo
Riccò
Se chiudo gli occhi non sono più qui di Vittorio Moroni
Kiko
tiene nel pugno una piccola pietra scura, deforme e rugosa, resto di una
meteorite: è per lui più di un amuleto. E’ come un viatico esistenziale che gli
ha lasciato il padre, morto tragicamente sulla strada, travolto da un colpevole
senza nome.
Il
ragazzo sogna universi paralleli e guarda il cielo notturno nel desiderio di
colmare un buco di sofferenza che non si chiude mai, anche quando, con una
pinza, si contorce le carni del braccio fino al limite della sopportazione.
Il
film di Vittorio Moroni, “Se chiudo gli
occhi non sono più qui”, presenta la figura di un giovane inquieto, figlio
di una filippina e di un italiano, che deve gestire una problematica situazione
emotiva.
La
madre, sommersa di debiti contratti dal marito,
convive con un altro uomo, aggressivo e irascibile, che fa del lavoro la
sua unica ragione di vita. Kiko deve conciliare, senza riuscirci scuola e
lavoro. Dopo la tragica vicenda dell’incidente è sempre tormentato da un senso
di vuoto. Fugge da un mondo che non capisce. Si rifugia in un arrugginito
autobus che ha trasformato in tana, circondato da chincaglierie, oggetti e foto
ingiallite del padre morto che gli sorride.
Nel
suo nascondiglio tutto è fermo, secondo una staticità asfissiante che reprime
ogni slancio di rinnovante cambiamento. La
rabbia cova tra le lamiere di un mezzo che, per antitesi rispetto al suo uso,
non trasporta più nessuno. Anche
l’iguana, l’unico amico silenzioso, si muove con una lentezza che ci riporta ai
tempi delle antiche ere geologiche.
Il
riferimento alle stelle è frequente in modo esplicito nel film: nomi di astri,
distanza tra corpi celesti. E il bus,
divorato da sterpaglie, è come una stella fissa: una nostalgica inquietudine
attorno alla quale si espande e ruota l’universo di una vita segnata da destini
che sembrano inevitabili e senza speranza. I debiti lasciati in eredità dal
padre, il duro lavoro nel cantiere che non gli lascia tempo allo studio, una
scuola distratta e inerme di fronte ad un ragazzo che si addormenta bocconi sul banco, un nuovo padre padrone che
lo vuole iniziare alla fatica del mondo adulto tra rimproveri, botte ed
obblighi di manovalanza.
Questo
sistema planetario relazionale - emotivo, senza orizzonte, viene però destabilizzato da una enigmatica figura:
Ettore. L’anziano insegnante dice di essere stato amico del padre e vuole accendere
nell’adolescente una nuova passione per la vita, attraverso il gusto di un sapere
esistenziale. Gli fa assaporare la saggezza della domanda, quella che motiva con dirompente
forza la ricerca interiore.
Le
domande sono così scritte, con pennarello indelebile, su sassi di fiume che sembrano
formare il fondamento di un rinnovato percorso.
Ma
quando tutto assume un indirizzo positivo, una nuova conoscenza fa esplodere,
come un big bang, ogni equilibrio. Il
portatore del bene è fonte dell’antico male e chi sembrava amico diventa il
peggiore dei nemici da odiare. L’origine della più radicale sofferenza.
Con
il cuore rivolto alle stelle, il giovane arriva ad una triste conclusione: “Quando una grande stella muore diventa un
buco nero: tutto ingoia e nulla torna più indietro”.
“Se chiudo gli occhi non sono più qui”, tra le dolorose, quanto possibili vicende che
illustra, è un film portatore di grandi segni di speranza, differentemente da
quanto possa apparire.
La
speranza di un sapere che diventa medicina sanante quando entra a contatto con
la vita. Un sapere che non è fatto di risposte nozionistiche, ma di
interrogativi profondi e motivanti, che
ci spingono oltre l’immobilismo di un destino precostituito e demoralizzante.
Ma
c’è di più.
Tra
le pieghe della narrazione emergono altri due volti della speranza che hanno
l’aroma della proposta cristiana più difficile e coraggiosa.
La
prima è quella di un male distruttivo che si trasforma in bene rigenerante. Il
vecchio Ettore mette tutto se stesso in gioco, accettando il rischio, il
rifiuto e l’odio comprensibile di chi sta aiutando, mosso non da sensi di
colpa, ma dal desiderio di trasformare il male in bene.
Il
secondo passo di speranza lo compie proprio Kiko.
E’
il passo più difficile: quello del perdono. E’ narrato senza parole, con le
immagini di una corsa che si ferma sulla soglia di una stanza di ospedale ormai
vuota.
L’ultimo
sasso che Ettore ha lasciato a Kiko in eredità è bianco, senza domande.
Il
giovane lo deposita dolcemente sul greto di un ruscello di acqua limpida. Non
lo lancia, né lo getta. Lo rimette al suo posto nel flusso della vita.
Enzo
Riccò
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