domenica 21 dicembre 2014

Le Recensioni di Enzo Riccò




La prima neve     di    Andrea Segre

 

Dopo la nebbiosa e nostalgica Chioggia del film “Io sono Li”, il regista Andea Segre ci presenta, con mano delicata, il piccolo mondo di una comunità montana che ha la schiettezza e la ruvidità delle cose essenziali. La pellicola, dal titolo: “La prima neve”, racconta passioni e sentimenti sepolti dal pudore di persone dalle poche parole e dagli sguardi intensi. Due storie parallele di una sofferenza con non raggiunge l’elaborazione perché non sa emergere dal cuore per arrivare alle labbra.

Dani è un emigrato africano salpato dalla Libia  sui tragici  barconi della disperazione; dopo un travagliato tragitto verso il nostro paese, perde la moglie che muore partorendo. Ora si ritrova ospitato in una casa di accoglienza tra i freddi, e per lui inusuali monti trentini, con una figlia che non accetta perché evoca lo sguardo della madre. Michele è un ragazzo intraprendente e sveglio, vivace quanto ribelle;  ha ancora negli occhi la morte del padre, guida alpina travolto da una frana.

Come in un dipinto si  stendono sulla pellicola le tinte calde dell’autunno: i rossi, i gialli, il verde bruno degli abeti; il regista ci offre paesaggi di un incanto che ammutolisce.

Tutto rimanda al suo precedente lungometraggio: la poesia di una natura quasi inanimata, avvolta nella nebbia e il difficile tema dell’accoglienza di chi è diverso per cultura e per colore della pelle. Questa accettazione, in entrambi i casi, si fa vicinanza tra l’imbarazzo burbero delle parole e i leggeri segni dell’empatia e dell’ascolto.  Come a dire che esiste, nella stessa essenza umana, una capacità comunicativa che supera la diversità culturale e va oltre i limiti delle lingue differenti e incomprese. E’ un’espressione controcorrente rispetto al pensiero rassegnato dell’incomunicabilità. Una fiducia estrema nell’uomo, nella sua capacità di capirsi oltre le parole che portano spesso il limite dell’ambiguità. I gesti, i silenzi, i tremori di una titubante presenza diventano così veicolo di sentimenti covati e non altrimenti espressi.

“Le cose che hanno lo stesso odore devono stare vicine”. E’ il messaggio che il brusco nonno di Michele affida all’africano, mostrandogli la sintonia tra il miele prodotto e l’aroma del legno resinoso di montagna. E’ un accostarsi all’altro quasi percettivo che passa attraverso le radici profonde dell’impronta creaturale umana.

Il filo rosso della paternità accompagna l’intera vicenda narrata da Segre che, con tono sussurrato, si accosta ai personaggi in punta di piedi per osservare da vicino i profondi messaggi del “non detto”. Finalmente un film sulla funzione paterna in una società che ne manifesta chiaramente i segni di un’evidente crisi.

Una paternità persa e ricercata nella collera  del piccolo Michele, smarrita e ritrovata nella rabbia silenziosa di Dani, che intaglia nel coccio di un abete il volto della moglie. Sarà il percorso iniziatico verso la riscoperta della indispensabile funzione paterna.

Un abbraccio timido, tra i venti nevosi delle cime trentine, esprime questo rasserenante ritrovamento. Là dove la montagna aveva cancellato un padre, un padre ritrova il suo equilibrio in una sintonia che non è né gelosa, né possessiva, ma come nella felicità più sana si esprime nella condivisione della bellezza.

 

Enzo Riccò

 


Se chiudo gli occhi non sono più qui   di   Vittorio Moroni

 

Kiko tiene nel pugno una piccola pietra scura, deforme e rugosa, resto di una meteorite: è per lui più di un amuleto. E’ come un viatico esistenziale che gli ha lasciato il padre, morto tragicamente sulla strada, travolto da un colpevole senza nome.

Il ragazzo sogna universi paralleli e guarda il cielo notturno nel desiderio di colmare un buco di sofferenza che non si chiude mai, anche quando, con una pinza, si contorce le carni del braccio fino al limite della sopportazione.

Il film di Vittorio Moroni, “Se chiudo gli occhi non sono più qui”, presenta la figura di un giovane inquieto, figlio di una filippina e di un italiano, che deve gestire una problematica situazione emotiva.

La madre, sommersa di debiti contratti dal marito,  convive con un altro uomo, aggressivo e irascibile, che fa del lavoro la sua unica ragione di vita. Kiko deve conciliare, senza riuscirci scuola e lavoro. Dopo la tragica vicenda dell’incidente è sempre tormentato da un senso di vuoto. Fugge da un mondo che non capisce. Si rifugia in un arrugginito autobus che ha trasformato in tana, circondato da chincaglierie, oggetti e foto ingiallite del padre morto che gli sorride.

Nel suo nascondiglio tutto è fermo, secondo una staticità asfissiante che reprime ogni  slancio di rinnovante cambiamento. La rabbia cova tra le lamiere di un mezzo che, per antitesi rispetto al suo uso, non trasporta più nessuno.  Anche l’iguana, l’unico amico silenzioso, si muove con una lentezza che ci riporta ai tempi delle antiche ere geologiche.

Il riferimento alle stelle è frequente in modo esplicito nel film: nomi di astri, distanza tra corpi celesti.  E il bus, divorato da sterpaglie, è come una stella fissa: una nostalgica inquietudine attorno alla quale si espande e ruota l’universo di una vita segnata da destini che sembrano inevitabili e senza speranza. I debiti lasciati in eredità dal padre, il duro lavoro nel cantiere che non gli lascia tempo allo studio, una scuola distratta e inerme di fronte ad un ragazzo che si addormenta  bocconi sul banco, un nuovo padre padrone che lo vuole iniziare alla fatica del mondo adulto tra rimproveri, botte ed obblighi di manovalanza.

Questo sistema planetario relazionale - emotivo, senza orizzonte,  viene però destabilizzato da una enigmatica figura: Ettore. L’anziano insegnante dice di essere stato amico del padre e vuole accendere nell’adolescente una nuova passione per la vita, attraverso il gusto di un sapere esistenziale. Gli fa assaporare la saggezza della  domanda, quella che motiva con dirompente forza la ricerca interiore.

Le domande sono così scritte, con pennarello indelebile, su sassi di fiume che sembrano formare il fondamento di un rinnovato percorso.

Ma quando tutto assume un indirizzo positivo, una nuova conoscenza fa esplodere, come un big bang,  ogni equilibrio. Il portatore del bene è fonte dell’antico male e chi sembrava amico diventa il peggiore dei nemici da odiare. L’origine della più radicale sofferenza.

Con il cuore rivolto alle stelle, il giovane arriva ad una triste conclusione: “Quando una grande stella muore diventa un buco nero: tutto ingoia e nulla torna più indietro”.

“Se chiudo gli occhi non sono più qui”, tra le dolorose, quanto possibili vicende che illustra, è un film portatore di grandi segni di speranza, differentemente da quanto possa apparire.

La speranza di un sapere che diventa medicina sanante quando entra a contatto con la vita. Un sapere che non è fatto di risposte nozionistiche, ma di interrogativi profondi e motivanti,  che ci spingono oltre l’immobilismo di un destino precostituito e demoralizzante.

Ma c’è di più.

Tra le pieghe della narrazione emergono altri due volti della speranza che hanno l’aroma della proposta cristiana più difficile e coraggiosa.

La prima è quella di un male distruttivo che si trasforma in bene rigenerante. Il vecchio Ettore mette tutto se stesso in gioco, accettando il rischio, il rifiuto e l’odio comprensibile di chi sta aiutando, mosso non da sensi di colpa, ma dal desiderio di trasformare il male in bene.

Il secondo passo di speranza lo compie proprio Kiko.

E’ il passo più difficile: quello del perdono. E’ narrato senza parole, con le immagini di una corsa che si ferma sulla soglia di una stanza di ospedale ormai vuota.

L’ultimo sasso che Ettore ha lasciato a Kiko in eredità è bianco, senza domande.

Il giovane lo deposita dolcemente sul greto di un ruscello di acqua limpida. Non lo lancia, né lo getta. Lo rimette al suo posto nel flusso della vita.

 

                                                                                                       Enzo Riccò