"Se chiudo gli occhi non sono più qui"

di Vittorio Moroni. Con Giorgio Colangeli, Giuseppe Fiorello, Mark Manaloto. Italia 2013. 100’

Un racconto sull’avventura della conoscenza, sulla potenza esplosiva che deflagra quando il sapere entra in contatto con la vita e il bisogno profondo di interrogarci intorno ad essa. Per questo è un film pieno di ottimismo, che crede nella trasformabilità della vita a partire dal sapere; anche nel giorno in cui, sulla terra, dovessero scomparire tutte le scuole, tutte le accademie e tutte le università.

MARTEDì 4 NOVEMBRE 2014


3 commenti:

  1. Ciao a tutti, la rassegna si è aperta con un film davvero molto interessante, pieno di spunti, forse fin troppo ricco di piste di riflessione. Per muovere il dibattito e rompere il ghiaccio, ve ne propongo una che ho colto: il tema principale mi sembra sia la perdita, l’elaborazione emotiva del lutto, lo scandalo della morte. Di fronte a questo punto che suscita in Kiko dolore, rabbia, struggente ricordo, tentativi di anestetizzarsi, appaiono due modelli di uomo e di padre che forse incarnano due modalità complessive di affrontare l’esistenza. La prima, quella di Ennio, si direbbe essere la modalità pratica, concreta, centrata sulla soluzione dei bisogni materiali fondamentali. La seconda, quella di Ettore, sembra essere la modalità speculativa, conoscitiva, filosofica. Entrambe queste modalità nascondono al loro interno dei limiti e delle ombre. La prima porta ad un appiattimento quasi brutale della vita, la seconda produce qualcosa di astratto che non è di grande aiuto nella costruzione di un rapporto autentico tra le persone: in fondo nonostante l’apparente iniziale ricchezza di scambi tra Kiko ed Ettore, egli non riuscirà ad affrontare il nodo della colpa e della responsabilità. Mi pare che il ragazzo alla fine scarti entrambe queste vie e riesca a riconciliarsi con la vita attraverso una modalità relazionale che potremmo definire “materna”: quella del prendersi cura, del riconoscere i bisogni dell’altro, dello scoprire e alimentare i legami (il bisogno di far visita al nonno, la riscoperta della propria lingua madre e delle origini). La scena finale, il ciottolo bianco lasciato sul greto del fiume, mi sembra quindi emblematica di questa soluzione esistenziale: non l’affanno del lavoro, non la ricerca estenuante di risposte, ma il lasciarsi levigare dalla vita, donandosi ad essa proprio come “docile fibra dell’universo”.

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  2. “Pà, a cosa servono le stelle? A proteggere i ricordi. Prima di sapere una cosa, devi sapere perché la vuoi sapere”. Sono due frasi che aiutano a capire la sostanza del film. Si intrecciano tanti temi della vita del nostro tempo: la scuola (non per il voto ma per la conoscenza), il lavoro, gli stranieri più o meno inseriti, la legalità, la famiglia, l’adolescenza con i suoi immancabili sogni, la morte e come sottofondo la paternità mancata, grande problema della famiglia di oggi. Tre figure paterne si intrecciano nella vita dell’adolescente Kiko, deludendolo per motivi diversi (una morte non accettata, la mancanza di comprensione, la paternità ricompensata...). Nonostante le tante prove, fatiche e delusioni... la speranza non viene meno; il cielo ricco di stelle rimane carico del fascino del sogno, dell’idealità. Senza utopia non si può guardare al futuro, insieme al desiderio di cercare, sapere, conoscere che sono l’anima della vita. Manca un riferimento diretto alla spiritualità, ma viene evidenziata dalla speranza di un mondo senza fine in cui i cari che ci lasciano continuano a “provvedere”. L’adolescenza tende a costruire un proprio rifugio, un autobus dismesso, reliquiario di ricordi, per sfuggire alla solitudine e alla mancanza di risposte alle domande esistenziali che inondano l’età dell’adolescenza. La conclusione della storia lascia spazio all’ottimismo, alla speranza che Kiko possa, come quel sasso che lascia nel fiume, arricchirsi e plasmarsi in un mondo migliore, continuamente lavato dall’acqua limpidissima della vita nuova e della continua purificazione.

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  3. Ciao a tutti
    Ripensando ai due padri rappresentati nel film, mi vengono in mente diversi aspetti che riequilibrano il giudizio iniziale: uno prepotente e insensibile, l’altro rispettoso e colto, uno che ostacola lo sviluppo e l’altro che lo promuove. In realtà a guardar bene Ennio vuole rispondere a dei problemi materiali incombenti (pagare i debiti, portare avanti il progetto della famiglia e soprattutto proteggere la madre di Kiko). In questo progetto egli coinvolge Kiko insegnandogli un mestiere, non lo considera solo un esecutore ma lo valorizza sul piano lavorativo (“questo è un lavoro di fino” gli dice). In realtà Ennio vuole fare squadra con Kiko, lo considera un futuro socio. Anche Ettore allacciare un’alleanza con Kiko, finalizzata a risvegliare in lui la curiosità, la sete di conoscere, indipendentemente anche dal fatto di concretizzare un risultato scolastico. La relazione che Ettore costruisce con Kiko sembra tuttavia essere priva di un vero obiettivo evolutivo. Egli lo seduce con la cultura ma non lo apprezza per il risultato scolastico, gli parla di filosofia ma non lo orienta e lo sostiene nel problema concreto di gestire un rapporto così conflittuale con Ennio. Sembra che lui stesso suggerisca indirettamente l’idea che per risolvere il problema con Ennio si possa fare ricorso alla Polizia. Quando poi Kiko è preso dai sensi di colpa per le conseguenze della sua denuncia egli appare del tutto insensibile. Alla fine si ha l’impressione che l’interesse di Ettore per Kiko sia principalmente dettato dal desiderio di attenuare il senso di colpa e dal desiderio di rivedere l’amico (forse amante?) perduto attraverso il contatto con il figlio. Che ne dite di queste considerazioni? A proposito lancio un’ulteriore domanda che potrebbe essere trasversale: a cosa si riferisce il titolo del film, che senso ha questa frase che descrive una fuga dal presente e dalla realtà?

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