La prima neve di
Andrea Segre
Dopo
la nebbiosa e nostalgica Chioggia del film “Io
sono Li”, il regista Andea Segre ci presenta, con mano delicata, il piccolo
mondo di una comunità montana che ha la schiettezza e la ruvidità delle cose
essenziali. La pellicola, dal titolo: “La
prima neve”, racconta passioni e sentimenti sepolti dal pudore di persone dalle
poche parole e dagli sguardi intensi. Due storie parallele di una sofferenza con
non raggiunge l’elaborazione perché non sa emergere dal cuore per arrivare alle
labbra.
Dani
è un emigrato africano salpato dalla Libia
sui tragici barconi della
disperazione; dopo un travagliato tragitto verso il nostro paese, perde la
moglie che muore partorendo. Ora si ritrova ospitato in una casa di accoglienza
tra i freddi, e per lui inusuali monti trentini, con una figlia che non accetta
perché evoca lo sguardo della madre. Michele è un ragazzo intraprendente e
sveglio, vivace quanto ribelle; ha
ancora negli occhi la morte del padre, guida alpina travolto da una frana.
Come
in un dipinto si stendono sulla pellicola
le tinte calde dell’autunno: i rossi, i gialli, il verde bruno degli abeti; il
regista ci offre paesaggi di un incanto che ammutolisce.
Tutto
rimanda al suo precedente lungometraggio: la poesia di una natura quasi
inanimata, avvolta nella nebbia e il difficile tema dell’accoglienza di chi è
diverso per cultura e per colore della pelle. Questa accettazione, in entrambi
i casi, si fa vicinanza tra l’imbarazzo burbero delle parole e i leggeri segni
dell’empatia e dell’ascolto. Come a dire
che esiste, nella stessa essenza umana, una capacità comunicativa che supera la
diversità culturale e va oltre i limiti delle lingue differenti e incomprese. E’
un’espressione controcorrente rispetto al pensiero rassegnato dell’incomunicabilità.
Una fiducia estrema nell’uomo, nella sua capacità di capirsi oltre le parole
che portano spesso il limite dell’ambiguità. I gesti, i silenzi, i tremori di
una titubante presenza diventano così veicolo di sentimenti covati e non altrimenti
espressi.
“Le
cose che hanno lo stesso odore devono stare vicine”. E’ il messaggio che il
brusco nonno di Michele affida all’africano, mostrandogli la sintonia tra il
miele prodotto e l’aroma del legno resinoso di montagna. E’ un accostarsi all’altro
quasi percettivo che passa attraverso le radici profonde dell’impronta creaturale
umana.
Il
filo rosso della paternità accompagna l’intera vicenda narrata da Segre che,
con tono sussurrato, si accosta ai personaggi in punta di piedi per osservare
da vicino i profondi messaggi del “non detto”. Finalmente un film sulla
funzione paterna in una società che ne manifesta chiaramente i segni di un’evidente
crisi.
Una
paternità persa e ricercata nella collera del piccolo Michele, smarrita e ritrovata nella
rabbia silenziosa di Dani, che intaglia nel coccio di un abete il volto della
moglie. Sarà il percorso iniziatico verso la riscoperta della indispensabile
funzione paterna.
Un
abbraccio timido, tra i venti nevosi delle cime trentine, esprime questo
rasserenante ritrovamento. Là dove la montagna aveva cancellato un padre, un
padre ritrova il suo equilibrio in una sintonia che non è né gelosa, né
possessiva, ma come nella felicità più sana si esprime nella condivisione della
bellezza.
Enzo Riccò
Se chiudo gli occhi non sono più qui di Vittorio Moroni
Kiko
tiene nel pugno una piccola pietra scura, deforme e rugosa, resto di una
meteorite: è per lui più di un amuleto. E’ come un viatico esistenziale che gli
ha lasciato il padre, morto tragicamente sulla strada, travolto da un colpevole
senza nome.
Il
ragazzo sogna universi paralleli e guarda il cielo notturno nel desiderio di
colmare un buco di sofferenza che non si chiude mai, anche quando, con una
pinza, si contorce le carni del braccio fino al limite della sopportazione.
Il
film di Vittorio Moroni, “Se chiudo gli
occhi non sono più qui”, presenta la figura di un giovane inquieto, figlio
di una filippina e di un italiano, che deve gestire una problematica situazione
emotiva.
La
madre, sommersa di debiti contratti dal marito,
convive con un altro uomo, aggressivo e irascibile, che fa del lavoro la
sua unica ragione di vita. Kiko deve conciliare, senza riuscirci scuola e
lavoro. Dopo la tragica vicenda dell’incidente è sempre tormentato da un senso
di vuoto. Fugge da un mondo che non capisce. Si rifugia in un arrugginito
autobus che ha trasformato in tana, circondato da chincaglierie, oggetti e foto
ingiallite del padre morto che gli sorride.
Nel
suo nascondiglio tutto è fermo, secondo una staticità asfissiante che reprime
ogni slancio di rinnovante cambiamento. La
rabbia cova tra le lamiere di un mezzo che, per antitesi rispetto al suo uso,
non trasporta più nessuno. Anche
l’iguana, l’unico amico silenzioso, si muove con una lentezza che ci riporta ai
tempi delle antiche ere geologiche.
Il
riferimento alle stelle è frequente in modo esplicito nel film: nomi di astri,
distanza tra corpi celesti. E il bus,
divorato da sterpaglie, è come una stella fissa: una nostalgica inquietudine
attorno alla quale si espande e ruota l’universo di una vita segnata da destini
che sembrano inevitabili e senza speranza. I debiti lasciati in eredità dal
padre, il duro lavoro nel cantiere che non gli lascia tempo allo studio, una
scuola distratta e inerme di fronte ad un ragazzo che si addormenta bocconi sul banco, un nuovo padre padrone che
lo vuole iniziare alla fatica del mondo adulto tra rimproveri, botte ed
obblighi di manovalanza.
Questo
sistema planetario relazionale - emotivo, senza orizzonte, viene però destabilizzato da una enigmatica figura:
Ettore. L’anziano insegnante dice di essere stato amico del padre e vuole accendere
nell’adolescente una nuova passione per la vita, attraverso il gusto di un sapere
esistenziale. Gli fa assaporare la saggezza della domanda, quella che motiva con dirompente
forza la ricerca interiore.
Le
domande sono così scritte, con pennarello indelebile, su sassi di fiume che sembrano
formare il fondamento di un rinnovato percorso.
Ma
quando tutto assume un indirizzo positivo, una nuova conoscenza fa esplodere,
come un big bang, ogni equilibrio. Il
portatore del bene è fonte dell’antico male e chi sembrava amico diventa il
peggiore dei nemici da odiare. L’origine della più radicale sofferenza.
Con
il cuore rivolto alle stelle, il giovane arriva ad una triste conclusione: “Quando una grande stella muore diventa un
buco nero: tutto ingoia e nulla torna più indietro”.
“Se chiudo gli occhi non sono più qui”, tra le dolorose, quanto possibili vicende che
illustra, è un film portatore di grandi segni di speranza, differentemente da
quanto possa apparire.
La
speranza di un sapere che diventa medicina sanante quando entra a contatto con
la vita. Un sapere che non è fatto di risposte nozionistiche, ma di
interrogativi profondi e motivanti, che
ci spingono oltre l’immobilismo di un destino precostituito e demoralizzante.
Ma
c’è di più.
Tra
le pieghe della narrazione emergono altri due volti della speranza che hanno
l’aroma della proposta cristiana più difficile e coraggiosa.
La
prima è quella di un male distruttivo che si trasforma in bene rigenerante. Il
vecchio Ettore mette tutto se stesso in gioco, accettando il rischio, il
rifiuto e l’odio comprensibile di chi sta aiutando, mosso non da sensi di
colpa, ma dal desiderio di trasformare il male in bene.
Il
secondo passo di speranza lo compie proprio Kiko.
E’
il passo più difficile: quello del perdono. E’ narrato senza parole, con le
immagini di una corsa che si ferma sulla soglia di una stanza di ospedale ormai
vuota.
L’ultimo
sasso che Ettore ha lasciato a Kiko in eredità è bianco, senza domande.
Il
giovane lo deposita dolcemente sul greto di un ruscello di acqua limpida. Non
lo lancia, né lo getta. Lo rimette al suo posto nel flusso della vita.
Enzo
Riccò
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